martedì 20 maggio 2008

Europa senza fede = Europa senza figli




Anche i politici sembra comincino ad accorgersene: la denatalità in Europa, e soprattutto in Italia, è ormai una emergenza.
In realtà la situazione si prolunga già da circa quaranta anni tanto che già entro il 2025 i primi Paesi europei - Italia, Spagna, Germania, Grecia - potrebbero sperimentare l'implosione demografica, ovvero la diminuzione effettiva della popolazione.
Attualmente l'Europa a 25 ha un tasso di fecondità medio di 1,4 figli per donna quando il livello di sostituzione - ossia il livello che permette di mantenere l'equilibrio - è di 2,1. Per dare l'idea della situazione, basta vedere l'evoluzione della percentuale di popolazione giovanile sul totale: ebbene, nel 1950 il 26,2% della popolazione europea era al di sotto dei 15 anni, nel 1975 i giovani erano scesi al 23,7%, nel 2000 si erano ridotti al 17,5%. Ancora peggio l'Italia: dal 1950 al 2000 si è passati dal 26,3% al 14,3%. Quanto ai tassi di fecondità il nostro Paese ha toccato il suo minimo alla metà degli anni '90 con 1,2 figli per donna; nel 2004 si è tornati per la prima volta sopra 1,3 (a 1,33 per la precisione), ma - come avverte l'Istat - l'incremento è in buona parte dovuto agli immigrati e comunque siamo lontanissimi dai tassi di fecondità che sarebbero necessari per garantire un futuro all'Italia.
Sì, perché questa situazione di squilibrio ha delle conseguenze enormi che vanno ben oltre il problema delle pensioni, che già avvertiamo in modo acuto. È tutta la società che va in crisi. Prendiamo ad esempio la crisi economica: ciò che nel dibattito politico è normalmente censurato è il fatto che essa dipende fondamentalmente dalla crisi demografica. Basti pensare allo squilibrio che si sta creando tra forza lavoro e fasce non produttive: nel 2000 in Italia le persone considerate in età produttiva rappresentavano il 61,7% della popolazione, nel 2025 scenderanno al 55% e nel 2050 al 46,2. Non solo la forza lavoro diminuisce, ma invecchia - ovvero si alza l'età media dei lavoratori - con conseguente perdita di competitività. Assottigliandosi la forza lavoro diminuisce anche il gettito fiscale - che si traduce in meno servizi - e la mancanza di figli incide inoltre negativamente sulla capacità d'impresa. L'imprenditorialità infatti è strettamente legata ai figli. Chi investe in una attività produttiva, e continua a investirvi, ha sempre in mente chi continuerà quest'opera. Così facendo tende a innescare un movimento dinamico che porta a creare posti di lavoro, maggiore fatturato, ulteriori investimenti, aumento di posti di lavoro e così via. Se non ci sono figli, diminuisce l'interesse e la convenienza ad investire, a un certo punto il profitto alimenta soltanto i consumi, effimeri soprattutto, quelli che vengono identificati con la qualità della vita. E senza investimenti produttivi l'economia tende ovviamente a ristagnare e si perdono i posti di lavoro.
Ciò che però ci preme affrontare in questa sede è come affrontare la crisi demografica. La Commissione Europea - che a breve pubblicherà un Libro Bianco sull'argomento - sembra affascinata dal cosiddetto "modello svedese", ovvero politiche familiari che sono un mix tra flessibilità del mercato del lavoro (orari e permessi ai genitori per consentire alle donne di lavorare pur avendo figli) e disponibilità di servizi (nidi e asili soprattutto). Ma seppure le politiche familiari sono necessarie per garantire alle coppie di avere il numero di figli che desiderano, non si può pensare che la molla che fa scattare la decisione di avere figli sia socio-economica. Lo dimostra la stessa Svezia, dove malgrado le misure prese il tasso di fecondità è intorno a 1,7 figli per donna; e lo dimostra anche la Francia, che pure ha il secondo tasso di fecondità più alto in Europa (dopo l'Irlanda) con 1,89 figli per donna. La Francia infatti ha una lunghissima tradizione di politiche pro-nataliste (almeno un secolo), usate sia come base per una politica di potenza sia per sopperire alle gravi perdite della Prima Guerra Mondiale (morirono 1 milione e 300mila maschi francesi in età riproduttiva). Ebbene, l'andamento dei tassi di fecondità è condizionato ma non determinato dall'introduzione di nuovi bonus per chi ha figli.
Un dato molto interessante è invece quello offerto da uno studio pubblicato nel settembre 2005 da tre ricercatori dell'Università di California e intitolato "Dalle panche vuote alle culle vuote", dove per panche si intendono quelle delle chiese. I tre ricercatori hanno infatti riscontrato un andamento molto particolare dei livelli di fecondità nei Paesi di tradizione fortemente cattolica (Italia, Spagna, Irlanda, Belgio, Lussemburgo): fino a metà degli anni '70 avevano un tasso di fecondità decisamente più alto rispetto ai Paesi protestanti e a quelli più laici (circa mezzo figlio in più), poi improvvisamente la fecondità crolla a livelli molto più bassi rispetto agli altri Paesi (attualmente è di circa mezzo figlio in meno). Ebbene, ciò che emerge dalla ricerca è che alla radice di questo fenomeno c'è la secolarizzazione, ovvero la perdita di appartenenza alla Chiesa: essa si manifesta sia nel calo di frequenza alla messa, sia nel venir meno agli insegnamenti morali (basti pensare all'atteggiamento davanti alla contraccezione), sia in termini di perdita di vocazioni religiose femminili, che storicamente sono il perno delle opere di assistenza alla maternità, all'infanzia e alla famiglia.
Pur se la ricerca non esce dall'esame di fenomeni misurabili, apre però a una prospettiva diversa da quella perseguita dai politici europei. La chiave di volta per comprendere ciò che sta avvenendo in Europa è infatti l'atteggiamento davanti alla vita. Ovvero, io metto al mondo dei figli se credo nella vita, se non ho paura del futuro, se - in altre parole - la mia esistenza ha un senso. L'esperienza cristiana è proprio l'incontro con questo senso che spalanca alla vita ed ecco perché il venir meno di una appartenenza vera alla Chiesa ha prodotto il disastro demografico che stiamo vivendo.
Per invertire la tendenza proprio da qui bisogna ripartire: le politiche familiari sono certamente importanti, ma la partita vera si gioca attorno al ritorno a Cristo. Quando si dice che "l'Europa sarà cristiana o non sarà", l'espressione va letta anche in senso demografico: i numeri dimostrano che l'alternativa alla conversione è l'estinzione.



DONNE MANCANTI? CHIEDETE ALL'ONU
Ha suscitato un certo clamore la pubblicazione alla fine di novembre di un corposo rapporto sulle violenze contro le donne nel mondo, identificato come "Il genocidio nascosto", secondo cui ben 200 milioni di donne mancano all'appello. La maggior parte dei giornali ha però glissato sul fatto che circa la metà di queste sparizioni sono dovute ad aborti selettivi e infanticidi praticati soprattutto in grandi Paesi asiatici come Cina, India e Corea. Ma anche chi ha avuto il coraggio di porre in risalto questo aspetto ha mancato di indicare l'origine di questa tragedia. Ebbene, bisogna chiarire che la vera causa è la selvaggia campagna di controllo delle nascite suggerita, imposta e abbondantemente finanziata dalle agenzie dell'ONU (primo fra tutti il Fondo per la Popolazione, UNFPA) e dai governi occidentali (oggi è l'Unione Europea a guidare il fronte).
Lo squilibrio demografico comincia a manifestarsi in India a partire dagli anni ‘70 (le campagne di sterilizzazione volute da Indira Gandhi) e in Cina è diretta conseguenza della "politica del figlio unico" varata nel 1979. Quando lo Stato (o l'ONU) impongono di avere non più di un figlio allora scattano motivi culturali ed economici, che fanno preferire il figlio maschio alla femmina.
La cosa più scandalosa è che oggi vi sono agenzie dell'ONU che si stracciano le vesti per le donne mancanti: non solo vogliono nascondere una verità imbarazzante, ma usano questa tragedia per promuovere un'agenda femminista occidentale, che invoca il diritto all'aborto libero su scala mondiale.
È come uccidere due volte queste bambine.

1 commento:

Raffaella ha detto...

Poveri noi, che continuiamo a rincorrere la felicità sempre dalla parte sbagliata!