venerdì 27 giugno 2008
I martiri del Messico
Nel corso del Novecento, dolorosamente percorso da immani tragedie conseguenza soprattutto del clima ideologico segnato dall'odio anticristiano, si è verificato anche un episodio ancor oggi poco conosciuto di martirio. Si trattò di una tremenda persecuzione, che si trascinò poi ancora per moltissimo tempo dopo il triennio cruento (1926-1929), lasciando effetti duraturi sulla struttura politica e sociale del Messico, determinando in maniera irreversibile il destino forse anche dell'intero sub-continente latino-americano. Fu un conflitto scatenato contro una società contadina, tradizionale, cattolica, un'aggressione perpetrata da uno Stato autoritario uscito da un processo rivoluzionario. Sarà papa Giovanni Paolo II (1978-2005) ad elevare agli onori degli altari alcuni martiri della persecuzione messicana: sacerdoti e laici, militanti delle organizzazioni cattoliche, tra cui Manuel Morales, presidente della Lega Nazionale per la difesa della libertà religiosa. Uomini e donne che testimoniarono con coraggio la loro fede contro un governo che nella propria Costituzione affermava, tra l'altro, che «L'esistenza di qualsiasi ordine e congregazione religiosa resta proibito» (art. 5); «ogni culto è proibito fuori delle chiese, e nelle chiese il culto sarà sempre sottomesso all'ispezione dell'autorità civile» (art. 24); «le chiese sono proprietà dello Stato. Tutte le associazioni religiose sono incapaci di acquistare, possedere o amministrare beni immobili».
L'epopea della Cristiada annovera come suoi protomartiri Joaquim Silva e Manuel Melgarejo, il primo di 27 anni, il secondo di soli 17, entrambi mlitanti della Gioventù cattolica. Dopo il provvedimento della sospensione del culto pubblico voluto dai vescovi messicani per protestare contro le misure del governo, Silva aveva cominciato, insieme all'amico, a percorrere il paese e a tenere conferenze nelle quali, grazie ad una solida cultura, una fede appassionata e una concezione della vita come milizia, sapeva accendere gli animi dell'uditorio e spronarlo alla lotta. Domenica 12 settembre 1925, mentre si dirigevano in treno a Zamora per tenervi uno di questi incontri, vennero arrestati e condannati a morte senza nemmeno un processo. Inutilmente Silva chiese che almeno l'amico minorenne fosse risparmiato. Entrambi furono condotti al muro, dove i soldati non riuscirono a strappare dalle loro mani le corone del Rosario. Di fronte al plotone d'esecuzione Joaquim Silva tenne un discorso talmente toccante per sentimenti religiosi e patriottici, che gli stessi soldati ne furono commossi. Uno di essi si rifiutò di prender parte all'esecuzione, così che venne a sua volta arrestato e passato per le armi il giorno seguente. Joaquim disse con fermezza al comandante: «Non siamo dei criminali, né abbiamo paura della morte. lo stesso vi darò il segnale di sparare, quando griderò viva Cristo Re, viva la Vergine di Guadalupe». Così avvenne: al grido di battaglia e di vittoria lanciato dai due giovani partì la scarica di fucileria che li abbattè.
I corpi dei due eroi furono esposti più tardi nel cimitero: stringevano ancora tra le mani i rosari, e furono rivestiti di bianche vesti, dopo che i loro abiti insanguinati erano stati divisi in frammenti, come reliquie, tra i fedeli del paese. Tra i martiri si poterono annoverare anche amministratori pubblici, come Luis Navarro Origel, il sindaco terziario francescano della città di Peniamo, fondatore nella sua regione dell'Ordine dei Cavalieri di Colombo, di società di mutuo soccorso, casse rurali, sezioni della Gioventù Cattolica, circoli culturali, scuole di catechismo, propagatore instancabile dell'adorazione eucaristica notturna. Dopo quattro anni di amministrazione corretta e vantaggiosa per la popolazione, venne destituito di forza dal governo, prima di essere assassinato. Un'altra figura commovente della persecuzione fu Tomàs de la Mora, di Colima, un ragazzo di soli sedici anni, uno dei più attivi membri del locale Circolo Cattolico, che svolgeva l'attività di catechista tra i bambini più poveri. Il 15 agosto 1927 fu arrestato per il semplice motivo che portava uno scapolare, ossia un pezzo di stoffa con una immagine sacra, simbolo di una confraternita religiosa. Il comandante della caserma gli domandò se avesse rapporti con "i fanatici", ovvero preti, frati, cattolici e briganti. «Non fanatici - rispose il ragazzo - ma liberatori della Chiesa e della Patria dai tiranni». Tomàs fu allora frustato, affinchè fornisse informazioni sui ribelli, ma fu tutto inutile. Il comandante ordinò allora che venisse impiccato all'Albero della libertà che era stato eretto, cupo retaggio della Rivoluzione Francese, nella piazza principale della città.
Un esempio di eroismo femminile è quello di Eleonora Garduno, arrestata per complicità coi ribelli. Interrogata dal generale Ortiz, uno dei principali collaboratori di Calles, che aveva per motto "il mio dio è il diavolo", la cui figura portava tatuata sul petto, ricevette dal militare l'offerta della scarcerazione, in cambio di una docile collaborazione. La ragazza rispose: «Lei mi chiede una cosa impossibile: io continuerò a lavorare finché questo governo cadrà». Anche lei finì davanti al plotone d'esecuzione.
Quando portarono alla moglie dell'avvocato Gonzales, una delle guide dell'insurrezione, il cadavere straziato del marito, la donna chiamò vicino i figli e disse: «Guardatelo, è vostro padre. È un martire della Fede. Promettetegli che anche voi sarete degni figli e continuerete un giorno la sua opera». Accanto a questi uomini, donne e ragazzi, occorre ricordare il tanto sangue sacerdotale versato. Furono centinaia i sacerdoti uccisi: poveri parroci di villaggio, giovani strappati dal seminario (con l'intenzione di "liberarli"!) monaci uccisi nei loro conventi. Fra di essi il più celebre è senz'altro padre Miguel Augustin Pro, gesuita, di Guadalupe, assassinato a soli trentasette anni nel 1927, riconosciuto come martire dalla Chiesa il 25 settembre 1988.
Ma non solo lui. Padre Elia Nieves, agostiniano: nonostante il divieto, continuò a esercitare il suo ministero, recandosi ovunque era necessario confortare, aiutare, amministrare i sacramenti. La polizia, venuta a conoscenza dei fatti, lo fece pedinare e arrestare mentre, in una soffitta, celebrava la Messa. Condannato a morte, venne condotto sul luogo dell'esecuzione. Dopo essersi inginocchiato a pregare, si rivolse ai soldati del plotone di esecuzione: «In ginocchio, figli miei. Prima di morire voglio darvi la mia benedizione». I soldati obbedirono e si inchinarono riverenti al gesto del sacerdote. Mentre padre Nieves tracciava il segno di croce, l'ufficiale che comandava il picchetto, infuriato, gli sparò al petto, uccidendolo mentre ancora benediva.
A volte gli aguzzini si divertivano a infierire sui sacerdoti senza ucciderli; venivano loro tagliate le braccia per impedire che in futuro potessero celebrare la Messa. Don Pablo Garcia subì una sorte atroce: parroco zelante, anch'egli sfidava le leggi e ogni pericolo. Volle celebrare con grande solennità la festa nazionale di Nostra Signora di Guadalupe e il 12 dicembre raccolse il suo popolo in un luogo solitario sulla montagna di S. Juan de los Lagos. Scoperto, arrestato, venne orribilmente torturato per giorni. «La morte, ma mai tradire» ripeteva il sacerdote, finché fu finito a colpi di pistola. Padre Davide Uribe, annoverato nel gruppo di martiri beatificati da papa Giovanni Paolo II, fu strappato al suo gregge, dopo essere stato rinchiuso in un campo di concentramento. Riuscì tuttavia ad evadere e tornò alla sua parrocchia di Iguala, continuando ad esercitare, in forma clandestina, il suo ministero. Finì per essere nuovamente arrestato. Il generale governativo Castrejon propose ai parrocchiani di riscattare il sacerdote consegnando tremila pesos. Furono raccolti immediatamente, a costo anche di enormi sacrifici, ma il parroco non fu rilasciato: si pretendeva da lui un pubblico atto di apostasia e di adesione alla scismatica chiesa patriottica. Pabre Uribe rifiutò decisamente e fu allora sottoposto a lunghe torture, tra le quali il supplizio della graticola. La Domenica delle Palme del 1927 spirò dopo i terribili tormenti subiti.
Le sue ultime parole furono: «la morte piuttosto che rinnegare il Vicario di Cristo, lo amo il Papa! Viva il Papa!». Il suo corpo, gettato per strada, venne raccolto e gli fu data sepoltura con grandi onori.
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